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  • Immagine del redattoreRadio Colli Aniene

Rwanda

Sono così stanca. Perché sono tanto stanca? Le lunghe distanze non sono mai state un problema per me.

Eppure sento le forze che mi abbandonano, piano… piano…

E poi ho paura. Ho tanta paura. Sento freddo: io non sento mai freddo.

Vorrei tornare a stamattina, quando sono partita: mi sentivo bene, non avevo tutti questi dolori, questo senso di pesantezza costante. Stavo bene.

Davvero? Stavo bene? Sì, no: che importa ormai…

Non so neanche dove sto andando: «A Kigali l’ospedale funziona di nuovo: c’è una grande scritta rossa e bianca fuori. Non ci lavorano più quelli di prima: a questi non importa della tua etnia o di quella di Augustin».

Il mio Augustin: chissà sotto quale terra riposa adesso.

«Vai là, ti faranno guarire. Cureranno te e tuo figlio»: così ha detto Alphonsine.


Già, mio figlio: ma io non ho ancora un figlio, né una figlia. Sono sola, con questa enorme pancia che mi rende tutto più difficile.

Però, in fondo, è per la creatura al suo interno – al mio interno – che faccio tutto questo.


Sono ore che cammino: il sole è calato già da un pezzo.

Non sono ancora arrivata in città: sassi, terra, ancora sassi. Quella sembra una vecchia casa, ma è distrutta. Anche quella accanto, e dopo ancora…

No. Non è possibile: questa è Kigali? No, ho sbagliato strada: dove sono?

Che faccio adesso? Eppure l’odore, questo odore è il suo odore. Lo riconosco tra la puzza di morte e il tanfo di cose bruciate.

Voglio tornare nella foresta, voglio tornare dalla mia famiglia. Ma quale famiglia? QUALE FAMIGLIA?

Cos’è laggiù? Bianco, rosso: che sia la scritta dell’ospedale? Che succede?

Ho le gambe bagnate: me la sto facendo sotto.

Non posso farmi vedere in questo stato, non so cosa penseranno di me…

Quanto è grande questa pancia: sembra crescere ogni volta che l’accarezzo.

Devo pensare a lei, a lui: che altro ho da perdere ormai?


Eccola, la vedo, è la scritta di Alphonsine: non capisco cosa c’è scritto, è diventato tutto sfocato; però i colori sono quelli. Aiuto! Aiuto! Ci sono persone lì: vi prego aiutatemi…


«Ehi, mi senti? Tesoro mi senti? Okay, ha aperto gli occhi»

Chi è questa donna? Perché sono stesa? Come sono arrivata qui?

«Calmati, calmati. Va tutto bene, sei al sicuro ora. Siete al sicuro»

Riconosco la sua lingua: è francese.

«Capisci quello che dico? Il mio nome è Maria, sono un medico. Tu come ti chiami?»


C’è troppa luce qui, da dove arriva la luce? Fuori era buio, voglio andare via.

«Calma, calmati per favore! Non fa bene né a te, né al bambino. Non vogliamo farti del male: siamo qui per aiutarti»


I suoi occhi: questa donna ha gli occhi buoni.

«Va bene, va bene, adesso ho bisogno di te: facciamo nascere questo bambino. Insieme, lo facciamo insieme, d’accordo?»

Sì, va bene. Sono così stanca: stanca del dolore, stanca delle urla, di tutto. Voglio solo che finisca, che arrivi domani, che i miei occhi si chiudano e che io riesca a dormire, e a sognare.

Fa male, fa troppo male. Sono sfinita, sudata, coperta di sangue e acqua. Ho la gola secca, faccio fatica a mandare giù la saliva.

È finita? È davvero finita? La porta, che altro c’è? Maria, è Maria, meno male: e quello è…


«Dì ciao alla mamma! Ehi, piccolino, c’è tua mamma qui»

Oddio, è lui, è lei: «Hai una figlia bellissima sai?»

È lei, è sempre stata lei. Voglio tenerla in braccio, non mi importa delle ferite.

«Dovrai darle un nome, sai? Prima o poi».

Maria, che bel sorriso che ha: non ricordo da quanto tempo non vedevo un sorriso così.


«Marie», sì, le sta proprio bene: anche lei ha un bel sorriso.

«Si chiama Marie, come te», sembra contenta, piange anche lei:


«Il mio nome è Theo: murakoze».


Tania Sattin

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